IL PROCESSO GRUPPALE

di Sergio Romano.

 


Uno dei fattori fondamentali da considerare nei gruppi costituiti dai bambini è l’asimmetria che connota la relazione di adulti e di bambini, che viene vissuta diversamente secondo le età. Appare comunque evidente che tutti i fenomeni che emergono nella vita di un gruppo di bambini non corrispondono necessariamente agli stessi riscontrabili nei gruppi degli adulti.

 

Le relazioni di gruppo sono presenti nel corso dell’evoluzione della vita del bambino e la tendenza al raggruppamento presenta un carattere specifico già dalla più tenera età, sebbene le esigenze psicologiche e affettive peculiari sembrino opporsi alla nozione stessa di gruppo di pari nella tenera età. Infatti, le condizioni dello sviluppo nei primi anni collocano il bambino nel nucleo familiare a cui egli è fortemente legato, tanto che la separazione sembra addirittura impossibile (soprattutto dalla madre dalla quale il bambino sarà a lungo dipendente per la sua stessa sopravvivenza). Eppure, l’approfondimento dei lavori sull’origine della socializzazione esige di andare oltre il contesto delle sole relazioni madre o padre e bambino. Infatti, a partire dall’asilo nido, assistiamo a numerose interazioni tra i lattanti dalle quali è possibile originino relazioni stabili.

A questo proposito, etologi quali H. Montagner, hanno riscontrato tra i più piccoli delle caratteristiche che differenziano completamente la comunicazione dei bambini tra di loro da quella tra loro e gli adulti. Tali interazioni non sono dello stesso tipo: tra bambini soli, si evidenzia piuttosto la scoperta comune dei giochi e dello spazio, la competizione e alcune manifestazioni aggressive, che hanno lo scopo di garantire un ruolo predominante o di testare le reazioni degli altri.  Questo spazio di comunicazione sembra essere molto importante per l’apprendimento e l’autostima e, se utilizzata nell’età adulta, può diventare un sostegno importante per la vita sociale.

Quando le interazioni si producono con l’adulto, i comportamenti predominanti sono quelli cosiddetti di affiliazione, quali richiesta di aiuto, rassicurazione e protezione. In presenza dell’adulto, i bambini abbandonano gli atteggiamenti interattivi che avevano prodotto quando erano soli tra coetanei e privilegiano i canali di comunicazione più specificamente socializzati e destinati all’adulto, che allora si generalizzano a tutto il gruppo di bambini. Ciò implica una certa perdita delle competenze creative del bambino che non potrebbe più così sperimentare tutte le sue potenzialità.

Nei gruppi terapeutici, il rapporto adulto-bambino è mediato dal gruppo. Quest’ultimo ha un effetto tampone e il lavoro in gruppo permette l’elaborazione di questa relazione, visto che, fin da subito, si pone la questione della differenza generazionale, che, a seconda delle età, pone differenti problemi.

All’inizio, come avremo modo di osservare, il gruppo è percepito come un luogo non organizzato che mette in pericolo l’identità di ognuno, a causa della perdita dei propri punti di riferimento abituali. Questo primo periodo è molto angosciante, il gruppo sperimenta sentimenti arcaici di vuoto, di frammentazione e di persecuzione. L’adulto è investito in una maniera contro-fobica, come oggetto di detenzione delle qualità delle quali l’io si sente privato; è l’inizio di un transfert di tipo narcisistico. A questo livello, la comunicazione tra i pari è inusuale.

Se il bambino vuole stabilire un contatto privilegiato con l’adulto, tende ad escludere gli altri, cioè nega il gruppo in ciò che ha di minaccioso. Il conduttore lavora per non colludere e i suoi interventi gruppali permettono l’emergere di un fantasma che risuona in ognuno: esisterebbe un gruppo immaginario diverso dalla giustapposizione degli individui, che potrebbe produrre delle gratificazioni narcisistiche che il terapeuta deve rifiutare. I bambini cercano di unire il gruppo, e questo tentativo si traduce con il rifiuto di tutto ciò che sembra opporsi al suo funzionamento, pensieri, oggetti o persone. In seguito alla ricerca di un capro espiatorio tra di loro, è infine il terapeuta che diventa il luogo di proiezione di tutto ciò che li imbarazza. Il livello di angoscia diminuisce, il gruppo ne beneficia in coesione. I conduttori sono, al tempo stesso, dentro e fuori.

L’unità è rispettata, seguendo questo specifico funzionamento: da una parte i bambini, dall’altra, alla giusta distanza, i conduttori, che non solamente contengono le loro proiezioni, ma permettono, a livello collettivo, il disinvestimento del genitore dal ruolo di oggetto sessuale. I bambini esprimono così il loro bisogno di proteggersi contro qualsiasi tentativo di intrusione o seduzione dell’adulto, che rischierebbe di riaccendere il conflitto edipico e di aprire, nuovamente, la ferita narcisistica dell’incompletezza. Questa problematica della seduzione, spesso all’origine delle massicce difese nella psicoterapia individuale, in questo caso rinforza l’investimento sul gruppo. Questo movimento di desessualizzazione conduce alla creazione di uno spazio intermediario, propizio ad un vero e proprio incontro identificatorio. Esso permette, dunque, di trovare una giusta distanza che lasci spazio alle manifestazioni pulsionali, senza rimettere in discussione gli investimenti narcisistici.

Il gruppo accede, allora, ad una fase nuova, tutti i membri sono associati all’unità di gruppo. In un momento di illusione gruppale, rendendo lo spazio gruppale privo di conflitti, i bambini negheranno, sia in rapporto ai sessi, che alla differenza generazionale, qualsiasi differenza che potrebbe essere sentita come attacco narcisistico. Questo movimento coincide con l’illusione gruppale. Questo stato, che noi possiamo considerare come un mezzo di lotta collettiva contro l’angoscia, permette l’investimento del gruppo come oggetto portatore delle gratificazioni narcisistiche, oltre che detentore di onnipotenza.

Possiamo, a tale proposito, parlare di transfert sul gruppo, vissuto come una madre onnipotente, che dona a tutti i figli in parti uguali. La differenza generazionale e la differenza tra i sessi vengono negate. Questa situazione è recepita come ideale perché priva di conflitto e qualsiasi pericolo sembra essere evitato.

I conduttori potranno, in un movimento di regressione controllata, lasciarsi immergere in un bagno affettivo ed emotivo del gruppo che elimina momentaneamente le barriere della differenza; una tappa essenziale dell’approccio terapeutico gruppale.

I bambini che compongono il gruppo in oggetto, sono collocati su un versante di patologia nevrotica; qui l’adulto è investito di una funzione limitante e protettiva. Egli deve essere abbastanza forte per proteggersi dalle conseguenze dell’aggressività che ostacolerebbe il funzionamento del gruppo. Egli è il punto di riferimento delle paure di straripamento pulsionale e di una eccessiva eccitazione legata alla rivalità, e alle angosce di abbandono, riattivate dalla gruppalità. Comunque sia, il lavoro di drammatizzazione della storia attraverso la simbolizzazione, così come il disegno, permettono concretamente l’elaborazione ed evitano il passaggio all’atto.

I bambini durante le fasi caotiche, ignorano la proposta dell’adulto e si ritrovano come indistinti alle prese in  violenti corpo a corpo. Per uscire dal caos, i conduttori sono tentati di utilizzare la loro autorità di adulti per riportare la calma, con il rischio di riprodurre magari la condotta abitualmente repressiva degli adulti con cui questi bambini si confrontano quotidianamente. I conduttori si sentono sprovveduti, impotenti e confusi. Ma se non cercheranno più di capire e si lasceranno invadere da un vago sentimento di abbandono, ecco che allora il caos insorgerà nella loro testa, per lasciare poi posto al vuoto.

Questa regressione permette di mettere in relazione la parte bambina dei conduttori con la problematica dei bambini. Per questa ragione, è necessario accettare di trovarsi di fronte alla regressione formale del pensiero, di fronte all’ignoto, perfino di fronte ad elementi disorganizzati. Occorre reggere il caos. Vivendo questo momento, senza difendersi troppo, è possibile avvicinare l’esperienza del vissuto dei bambini.

E’ ben chiaro ai conduttori di  gruppi come la situazione gruppale produca effetti regressivi, a prescindere dal tipo di gruppo e dal compito del gruppo. Pichon-Riviere fa notare come anche i meccanismi di difesa utilizzati da parte dei membri del gruppo diventano più arcaici.

In pratica la gruppalità viene associata al gruppo primario, famigliare. Si entra così in una dimensione arcaica, caratterizzata essenzialmente da due paure: paura della perdita e paura dell’attacco.

Paura della perdita

Entrare a far parte di un gruppo fa perdere le proprie certezze, i propri riferimenti, è sentito come minaccioso. Se la minaccia percepita à grande, la paura dela perdita aumenta e impedisce al gruppo di stare nel compito.

Paura dell’attacco:

i cambiamenti, il nuovo possono essere vissuti come attacco e quindi ecco che il gruppo diviene minacciante. A questo punto è difficile stare nel compito.

Sebbene il senso di minaccia caratterizzi tutti i gruppi, quando diviene troppo grande il gruppo non funziona più; lo stesso accade se c’è troppa tranquillità.

Nel gruppo in oggetto è stato possibile anche verificare la concezione di ruolo che le precedenti considerazione fanno scaturire.

Il senso di minaccia deriva dal fatto che portando dentro parti degli altri, creiamo o modifichiamo il nostro gruppo interno,  quindi viene modificato l’io e questa viene sentita come una grande minaccia. La necessità di ridurre il senso di minaccia porta i singoli membri del gruppo ad etichettare gli altri rapidamente per cercare di ridurre l’ansia.

Il ruolo qui diviene non qualcosa attinente al singolo, una sua decisione, bensì la risultante di un bisogno gruppale.

Prende un determinato ruolo chi per storia personale è il più indicato per quel ruolo.

Avendo questo in mente cerchiamo di capire perché lui o lei e cosa sta dicendo del gruppo in quel momento, se è portatore di un’istanza personale o gruppale.

P.R. rileva 4 ruoli fondamentali: il leader, colui che aiuta il gruppo ad integrare aspetti cognitivi ed emozionali; il Portavoce, che parla dei desideri e delle fantasie gruppali ed è considerabile una sorta di alleato del terapeuta; il capro espiatorio, il quale esprime i conflitti e le difficoltà gruppali assumendosi le colpe proiettate e le attua.

I primitivi, si liberavano della violenza che cresceva nella loro comunità trasferendola attraverso riti di tipo sacrificale sul capro espiatorio: la vittima espiatoria, una volta calamitata su di sé la violenza diffusa tra i vari membri del gruppo, ne permatteva la purificazione attraverso il proprio sacrificio. Questa figura è fondamentale che sia sempre presente, che continui ad esistere perché è lui il catalizzatore delle colpe. Nel caso vada via, il gruppo provvede immediatamente ad individuarne un altro, per poter attuatre questa sorta di catarsi magica. Interessante è stato assistere all’attribuzione di questo ruolo da parte del gruppo ad un soggetto che non intendeva accettarlo: il gruppo lo ha obbligato esercitando un’enorme pressione fino a quando, in questo caso Loris, è chiaramente entrato nel ruolo.

L’ultimo ruolo considerato da P.R. è il sabotatore, il cui compito è quello di staccare il gruppo dal compito, mettere il bastone tra le ruote. Incarna la resistenza al cambiamento del gruppo e funge anche da allarme quando il senso di minaccia cresce.

Nel corso di un lavoro con un gruppo di bambini, per alcuni incontri ha partecipato al gruppo una bambina microcefalica; in tempi rapidissimi, è stata etichettata come capro espiatorio. Complice probabilmente la sua diversità fisica, il suo  modo di muoversi fuori dalle regole, le sue frequenti provocazioni.

Fatto stà che nel giro di un paio di incontri la nuova arrivata è diventata il ricettacolo delle ansie, delle inadeguatezze, delle parti fuori regola, diverse del gruppo.

Il gruppo ha cominciato ad attribuirle la colpa per qualsiasi problema e ad isolarla, nonostante i tentatìvi dei conduttori di normalizzare la situazione.

Appena la nuova entrata ha abbandonato il gruppo, ecco che il gruppo ha individuato un altro bambino come sostituto. Da quel momento non è stato più possibile levargli questa etichetta, nonostante i tentativi anche molto diretti da parte dei conduttori.

Ad un certo punto del percorso, durante un incontro in cui il gruppo si era particolarmente accanito nei suoi confronti, ho deciso di parlare in modo chiaro di quanto stava avvenendo nel gruppo ed ho proposto di drammatizzare la situazione.

Questa proposta ha sorpreso tutti i bambini in quanto fuori dallo schema, non prevista ma ci ha consentito di interrompere un angoscioso crescendo di veri e propri insulti nei confronti del capro espiatorio.

Abbiamo individuato un momento significativo e lo abbiamo messo in scena.

E’ stato sorprendente osservare innanzitutto la competenza con la quale lo psicodramma è stato affrontato. La loro capacità di assumere i diversi ruoli è notevole. Questo mi ha fatto riflettere su come e quanto la dimensione intersoggettiva proposta dallo psicodramma sia naturale e quanto mai  il terreno adatto ad affrontare le problematiche portate da questi bambini, le quali, indipendentemente dall’eventuale etichetta diagnostica, si collocano su di un versante nevrotico, ad un livello affettivo-relazionale.

A proposito di ruoli, la concezione di ruolo a cui faccio riferimento è essenzialmente quella proposta da Gasca nella sua teoria dei ruoli.

Durante le drammatizzazioni è possibile osservare come il gruppo assegni ruoli prevalenti; nei gruppi di adulti, questo fatto offre una possibilità a ciascuno di prendere coscienza con i ruoli prevalenti che assume nella vita, invogliando l’individuo ad assumere altri ruoli.

Gasca, mette in evidenza, nella sua teoria dei ruoli progetto, la rilevanza della matrice transpersonale e famigliare. Egli suggerisce come i contenuti delle scene virtuali non siano ricordi di eventi successi al soggetto, ma immagini già strutturate indotte da racconti materni, da aspettative di adulti significativi; in generale, dall’atmosfera nella quale il bambino è immerso. Il bambino, secondo lui, si crea una sorta di mito delle sue origini fino ad arrivare a modificare i ricordi per adattarli al mito, che ha evidentemente un contenuto transpersonale famigliare. Propongo di considerare le scene virtuali come le scene tratte dalle storie raccontate dai bambini e credo che il risultato non cambi.

Ecco allora che le storie di ognuno non solo assumono il significato di desideri, paure, difficoltà ma possiamo provare a leggerle anche in termini di mito famigliare.

Tornando al gruppo, abbiamo osservato come nelle fasi iniziali sia caratterizzato dal caos: cubi sfoderati, sedie lanciate, oggetti sbattuti per terra, urla, parolacce sono la manifestazione sensibile del caos interno.

L’essere umano sente la necessità di passare dal Khàos al Kòsmos, dalla confusione all’ordine; è proprio questa spinta innata, questa tendenza naturale che io considero il nostro miglior alleato.

Il mondo interno dei singoli membri trova nell’assetto gruppale lo spazio per manifestarsi.

La paura di frammentazione a cui sentono di andare incontro i bambini prende forma. Viene spontaneo conducendo il gruppo ed assistendo a tale manifestazione sottolineare l’analogia tra l’accadere esterno e quello interno, ad esempio con frasi come” mi pare che oggi siamo tutti molto spaventati” oppure “certo che questo lupo fa veramente paura” etc. Ciò produce in ognuno la possibilità di cogliere collegamenti tra l’accadere nel qui ed ora ed  i propri vissuti.

Durante il lavoro di gruppo, le luci della sala vengono spesso spente, tipicamente nei momenti che qualche bambino sente come maggiormente critici: tentativo di lasciare i conduttori al buio, di togliergli potere? Ovvero, come sottolinea uno dei bambini del gruppo, “ perché al buio è più facile incontrare i mostri”?

Le due, antitetiche almeno in apparenza, ragioni dello stare al buio ben rappresentano la difficoltà di interpretazione  a cui si va incontro nell’osservare i  comportamenti dei singoli membri all’interno del gruppo.

Occorre porre molta attenzione nel distinguere quelli che possiamo definire come Enactment, riattualizzazioni di vissuti, dagli acting out, finalizzati in genere a produrre una rottura, uno stop all’accadere.

Sordano(Fiaba, sogno e intersoggetività) ci ricorda come l’enactment sia la riattualizzazione di una parte di sé inconscia mente l’acting è un agito fuori dalle regole costitutive.

Entrambe queste dimensioni richiedono particolare ascolto e tolleranza. In particolare, con i bambini piccoli il disegno e i giochi di riscaldamento sono strumenti che facilitano il controllo di queste due dimensioni.

Distinguere tra i due accadimenti può essere comunque molto difficile. Cito ad esempio un episodio accaduto con uno dei bambini del gruppo, Loris: un giorno si è presentato in seduta con una figurina che si è premurato di mostrarmi appena entrato. Secondo il contratto, i bambini non possono portare nulla all’interno della stanza.

Acting out o enactment?

Col senno di poi, direi un enactment ma sul momento quel gesto è stato da me vissuto come un acting out e non interrogato, o forse non interrogato nel modo dovuto. E il Mio?

Non è forse stato un acting? Cosa ho cavalcato nell’andare dritto a prendere la figurina e riporla sull’armadio con la promessa di ridargliela a fine incontro? La regola o una mia rigidità che mi ha reso  miope e supponente?

Hilmman (riferendosi alle immagine disegnate o sognate dai bambini) dice:”Un serpente, che è un serpente, diventa invece un problema; un serpente che invece andava attentamente osservato e al quale bisognava rispondere, diventa invece un’ansia. E così ora è un serpente morto, imbottito di concetti psicologici”.

Trattare un enactment come acting out significa, come minimo, perdere un’occasione, posto che poi uno se ne accorga. Non dobbiamo dimenticare che un serpente è prima di tutto un serpente.

Purtroppo siamo sempre noi adulti al centro della relazione, con il nostro pensiero concreto, indirizzato. Il mondo guarda i bambini attraverso un filtro polarizzato, così come si guarda il sole durante le eclissi. Vogliamo prudentemente poter osservare senza restare abbagliati, ma così facendo guardiamo i dettagli e perdiamo l’insieme.

Poi si fa giorno e l’eclissi è passata. Un’occasione è perduta.

Tornando al bambino-caproespiatorio, grazie a quello che considero un errore, però mi è stato possibile comprendere la sua difficoltà nel comunicarmi delle cose, nel dire di sé. Egli per tutta la durata del gruppo, porterà come inseparabili compagni di viaggio dei dinosauri, non più in figurina, ma descrivendomi i loro comportamenti, le loro abitudini e le loro caratteristiche salienti, soprattutto di potenza fisica e di grandiosità. Quella grandiosità che non è riuscito a tradurre in competenza relazionale, risultando al gruppo antipatico e divenendo l’oggetto sacrificale.

L’analisi degli errori commessi è resa più agevole (dal punto di vista tecnico, non certo sul piano narcisistico..) dal fatto che ogni singolo incontro è stato filmato, fatto che ha consentito una rielaborazione piuttosto oggettiva dell’accaduto.

Su questo punto voglio però aggiungere due cose: la prima, è che personalmente ritengo gli errori parte integrante ed importante della relazione terapeutica: credo infatti che essi concorrano, quando limitati ed accettabili, a generare una situazione in grado di promuovere un possibile ed auspicabile clima di possibile serendipità, obiettivo ultimo ma fondamentale nella mia visione di gruppo terapeutico con i bambini. La seconda, è a proposito dei filmati. Per quanto essi ci possano tornare utili ad oggettivare comportamenti, situazioni, a comprendere meglio alcuni accadimenti, sono profondamente convinto che non sia mai possibile rendere realmente oggettivabile una relazione. La relazione è qualcosa che accade nell’hic et nunc e non si presta ad interpretazioni a posteriori, è un soffio di vita, un profumo, o un odore fetido, che non può essere catturato e respirato a posteriori.

Serendipità: vorrei spendere due parole a proposito di questo importante concetto.Non è un termine molto comune nella nostra lingua; è un italianismo del termine anglossasone  serendipity, che deriva da Serendip, l’antico nome persiano per Sri Lanka. Il termine fu coniato dallo scrittore Horace Walpole il 28 gennaio del 1754 che lo usò in una lettera scritta a Horace Mann, un suo amico inglese che viveva a Firenze.

A proposito di fiabe, Horace Walpol fu ispirato dalla lettura della fiaba persiana “Tre principi di Serendippo” di Cristoforo Armeno nel cui racconto i tre protagonisti trovano sul loro cammino una serie di indizi, che li salvano in più di un’occasione. La storia descrive le scoperte dei tre principi come intuizioni dovute sì al caso, ma anche allo spirito acuto e alla loro capacità di osservazione (wikipedia).

Serendipità è dunque, dal punto di fista filosofico,  lo scoprire una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra. Ma il termine non indica solo fortuna: per cogliere l’indizio che porterà alla scoperta occorre essere aperti alla ricerca e attenti a riconoscere il valore di esperienze che non corrispondono alle originarie aspettative.

Tanto per citare qualche esempio di Serendipity, si pensi alla scoperta dell’America, alla scoperta della pennicillina, alla creazione del prozac o alla scoperta dei neuroni specchio.

Niente di ciò sarebbe stato possibile se il ricercatore non avesse avuto un’apertura, una disponibilità ed una capacità di osservazione tale da permettergli di cogliere ciò che accadeva dinanzi a lui.

La ragione di questo breve approfondimento stà non solo nella doverosa spiegazione di un termine assai desueto, ma nel fatto che per avere un atteggiamento che concorra a promuovere in qualche misura eventi nominabili come eventi di serendipità, occorre probabilmente assumere un atteggiamento di disponibilità, di apertura in tal senso. Credo che un tale atteggiamento si accompagni ad una buona dose di coraggio e di umiltà. Virtù oggi in deciso calo.

Tornando al gruppo, notiamo che man mano che il caos interno diminuisce e prende forma, le scariche motorie e l’uso concreto degli oggetti diminuiscono, lasciando il posto al gioco simbolico ed il sentire di ognuno comincia a trovare la via della parola e non dell’agito. Questo passaggio richiede tempo ed è indice di raggiungimento di uno stadio evolutivo importante come la capacità di simboleggiare. Piaget, colloca la comparsa di tale capacità tra i due e i 7/8 anni.

Il bambino passa quindi dal cosiddetto gioco di esercizio, caratteristico del periodo sensomotorio(dalla nascita ai due anni, circa), al gioco simbolico. Qui viene aggiunto all’esercizio la dimensione della simbolizzazione, la capacità di rappresentare attraverso i gesti una realtà non attuale. Parliamo qui della comparsa del “come se”.

Per Piaget, attraverso il gioco simbolico il pensiero del bambino si organizza.

Successivamente, dopo i 7/8 anni compariranno i giochi di regole, che caratterizzeranno la socializzazione del bambino.

Sia che consideriamo il punto di vista di Piaget sia che ci riferiamo ad altri, ciò che appare chiaro è che l’osservazione del gioco dei bambini offre enormi possibilità di valutazione del suo stadio evolutivo e del suo stato attuale.

Il gioco dei bambini è considerabile a pieno titolo una cartina al tornasole: luogo di proiezioni della vita fantasmatica, esso diviene: instabile o caotico di fronte a fantasmi troppo invasivi; calmo e tranquillo se e quando il bambino può tenere a distanza le sue pulsioni; molto aggressivo quando il bambino è incapace di accettare le regole del gioco e con esse la dimensione simbolica del gioco. Comunque la si consideri, un bambino che non gioca è un bambino che non sta bene.

Caillois, che divideva il gioco in 4 componenti fondamentali, La competizione, Il caso, Il come se e La vertigine, fa notare come nei bambini psicotici  risultano essere praticamente assenti sia la competizione(perché implicano la dimensione sociale) che il caso(perché viene rifiutato, c’è stereotipia).

Queste considerazioni  hanno permesso di valutare come non possibile la partecipazione al gruppo di un altro bambino, che chiameremo Mario. Questo avendo deciso a priori, sebbene personalmente non fossi d’accordo, che il gruppo non potesse farsi carico di bambini diagnosticati come psicotici. Mario, non interagiva con gli altri bambini; la competizione, presente e tangibile in tutti gli altri sebbene in misura diversa, era praticamente assente. Egli girovagava per la stanza e giocava da solo, come se glia altri bambini non esistessero in una sorta di percorso chiuso che non lasciava spazio a nessun perturbatore.

L’omogeneità del gruppo quindi è qui nella assenza di conclamata patologia psicotica.

Sto ancora riflettendo sull’opportunità o meno di accettare nel gruppo bambini con diagnosi di psicosi. Indubbiamente mi sono reso conto in più di un’occasione di cosa significhi la presenza di un soggetto che polarizza l’attenzione dei conduttori e del gruppo stesso; e della fatica che i conduttori devono fare per cercare di mantenere saldo il gruppo.

Così come ho preso coscienza del fatto che la presenza di Mario, così come quella della bambina con sindrome microcefalica, creava nel gruppo fortissime ansie ed eccessive polarizzazioni. Tuttavia, resto scettico e dubbioso sulla bontà della scelta, in virtù del fatto che questo schema, sebbene certamente non volto ad impedire la possibilità di evoluzione a questi bambini, nei fatti si rivela tale.