Modelli e Psicoterapia    

di Sergio Romano e Elena Grava            

Francesco Remotti, antropologo dell’università di Torino e profondo conoscitore della cultura Banande, una popolazione del Congo, ci spiega come durante una cerimonia di iniziazione detta Olusumba, durante la quale i giovani del villaggio vengono portati nella foresta, questi rivolgono la loro domanda agli dei:

“Omundu niki?”   “Un uomo cos’è?”

Dal canto suo Pontalti, Psichiatra, ci ricorda come dall’illuminismo in avanti, abbiamo assistito ad un progressivo emergere del singolo individuo e come i filosofi occidentali dall’ottocento ad oggi ripensando la domanda guida,  siano arrivati a porla così: Cosa significa essere un Essere Umano?

Qualsiasi tipo di cultura, affronta tale interrogativo. Le forme mediante le quali prova a darsi delle risposte sono ovviamente molteplici e riflettono anche la complessità della società stessa.

Nella cultura Banande ciò che i giovani chiedono è essenzialmente di diventare dei bravi Abakonde, cioè tagliatori di alberi. Possiamo dire che la domanda è semplice, chiara e in qualche modo orienta, aiuta e guida il giovane nel suo processo individuativo. Così non è per noi, dove la società nella quale siamo immersi e della quale facciamo parte, offre una serie di modelli a cui tendere molto spesso confusi e superficiali, spesso frutto di astute quanto spregiudicate politiche di marketing, che rendono il processo individuativo, già di per sè lungo e faticoso,  estremamente complicato.

Gli individui sono continuamente sottoposti ad un vero e proprio bombardamento mediatico dove anche coloro i quali possiedono elevate capacità critiche, si trovano in difficoltà.

La nostra società promuove un’antropopoiesi di tipo anonimo e continuo, mentre nelle  società cosiddette “primitive” è presente un’antropopoiesi di tipo esplicito e programmato. Alla base di entrambe le considerazioni antropopoietiche, vi è il presupposto che gli essere umani vengano “fatti, rifatti e costruiti” dalla cultura in cui sono immersi. Gli uomini come Esseri in divenire.

Se si accetta tale presupposto, occorre mettere molta attenzione all’uso di parole come modello e sicuramente risulta del tutto incoerente interpretare i vari modelli  come “entità sovraordinate dotate di esaustività epistemologica”,  soprattutto quando si tenda ad equiparare i costrutti teorici  che fondano i modelli con la loro applicazione, senza per di più procedere ad attività di continua valutazione.

Il  concetto di “Modello” è inteso, secondo la definizione che ne dà Galimberti nel suo “Dizionario di psicologia”, in due accezioni:

1) come modello di una teoria, dove per teoria si intende un quadro concettuale che si esprime in un linguaggio formalizzato in cui, a ogni significato è assegnata una determinata espressione linguistica che, insieme alle altre, è in grado di nominare tutti i dati offerti dall’esperienza.

2) come modello di un fenomeno o di un insieme di fenomeni  con cui si intende una costruzione più o meno astratta che riproduce le caratteristiche strutturali del fenomeno osservato.

Anche queste definizioni offrono uno spunto di riflessione sulla difficoltà di conciliare i continui mutamenti  che caratterizzano l’essere umano con l’esigenza di riferirsi a teorie e prassi statiche, spesso considerate come utilizzabili “a prescindere”.  

La nostra cultura si fonda su abitudini e convenzioni  le cui valenze di modellamento sono prevalentemente implicite ed inconsapevoli. Tali valenze determinano massicce incorporazioni che non sempre hanno un adeguato spazio di riflessione.

Il mondo scientifico, cui la psicoterapia fa riferimento, non sempre sa divergere da tale atteggiamento.

Se i “modelli scientifici” da un lato possono orientare, incanalare e guidare la prassi a partire da fondate riflessioni teoriche,  dall’altro, la loro applicazione tout court riduce la possibilità di cogliere le molteplici sfaccettature e la complessità di cui il campo fenomenico si compone.

Se il campo fenomenico è individuato nel “sociale”, in cui si co-costruisce anche il mandato degli psicologi, non possiamo che riflettere sui nuovi interrogativi che dal sociale, in continuo mutamento, ci arrivano.

La complessità dei fenomeni sociali, ci pone sempre più a contatto con sofferenze connesse con i campi relazionali della vita: ciò pone l’esigenza di “creare lo spazio perché una pluralità di interlocutori possa esistere nel campo terapeutico proposto e gestito dallo psicologo”(Pontalti).

Il confronto diretto con la nostra esperienza ci suggerisce che tutto ciò debba tradursi anche in uno spazio mentale del terapeuta (e/o dell’équipe) in grado di con-tenere,  di “stare” nella complessità senza produrre semplificazioni che hanno come reale finalità quella di ridurre il disagio, e talvolta la sofferenza, che la gestione di tale complessità genera nel terapeuta.

La complessità dei mutati contesti di vita, nella sua dimensione culturale, coinvolge sia i pazienti ed i loro “mondi”, sia il terapeuta/équipe ed i suoi “mondi”. 

Sebbene tale affermazione possa apparire ovvia, la nostra personale esperienza ci suggerisce quanto invece sia difficile avere la consapevolezza e gli strumenti elaborativi necessari per gestire la “doppia complessità” risultante.

Ci riferiamo qui alla complessità di cui è portatore il terapeuta, riferita alla sua vita privata di soggetto inserito in un contesto, probabilmente molto simile a quello del paziente ed alla complessità derivante dall’ampliamento della “rete curante” che il terapeuta, proprio perché deve fronteggiare una sempre maggiore complessità, si trova a dover attivare; servizi territoriali, professionisti diversi etc.

Ognuna delle figure coinvolte nel progetto terapeutico, sarà quindi portatore di una complessità che si andrà a sommare alle altre in gioco.

Alla luce di ciò, assistiamo spesso al passaggio dal complesso al complicato, fase che determina uno stato di confusione e di grande difficoltà nel procedere, a discapito della qualità e dell’efficacia dell’intervento di cura.

Se il terapeuta/equipe non è sufficientemente consapevole dell’accadere, o non possiede gli strumenti per fronteggiare tale situazione, è possibile che la situazione perda le caratteristiche di tempo e luogo di cura per divenire un luogo di non cura, crogiolo ideale per la nascita della cronicità.